Articolo di :

Gabriele Galdelli

Lungo la Linea Gotica

857 1024 Gabriele Galdelli

IL CAMMINO, TUTTO INTERO

di Giulia Boria e Gabriele Galdelli

La Linea Gotica

Giulia e Gabriele, due ritornanti. Così ci siamo definiti all’inizio di questa avventura. Percorsi pochissimi chilometri, neppure la metà di quelli che dividono la stazione ferroviaria di Forte dei Marmi, da cui siamo partiti, a Cinquale, abbiamo capito che noi stavamo ritornando. Stavamo ritornando verso le Marche, la nostra regione; stavamo ritornando all’essenzialità: pochi comfort, un paio di scarpe, una tenda, due mandorle in tasca e tanto cammino; stavamo ritornando alla natura animale dell’uomo capace di muoversi non tra auto, semafori e palazzi, ma tra faggi, castagni, rocce e torrenti; stavamo ritornando indietro con la memoria ad un passato, tanto recente nei fatti, quanto apparentemente dimenticato, quasi fosse un trapassato, a giudicare dal comportamento, dalle affermazioni, dai motti, che vanno di moda oggi, nel ventennio del nuovo millennio (o nel nuovo ventennio di questo millennio?).
Se studi la storia, quella vera, non quella che ti spacciano come vera, vedrai che Lui (anzi, LVI) ha fatto più cose buone di quelle che non sai. Se oggi stiamo messi così è perché manca una figura come LVI, che sappia per il nostro bene assumersi i pieni poteri (!!!).

La storia l’abbiamo studiata tra i banchi di scuola. Due parole sugli etruschi, tre sugli egizi, quattro sui greci, cinque su romani e barbari; poi le guerre, tante, un metronomo che ha da sempre scandito la vita e la morte del genere umano. La Prima Guerra Mondiale non fu sufficiente, serviva qualcosa di più grande per raggiungere il baratro: la Seconda Guerra Mondiale.

Abbiamo capito che c’era un colore e che ce n’era un altro. Abbiamo letto che ci sono stati morti, tanti, troppi. Abbiamo mandato a memoria due date, forse tre. Abbiamo preso una posizione, netta, definita. Poi però siamo andati avanti con il programma scolastico e abbiamo voltato una pagina, poi un’altra e un’altra ancora. Mancava qualcosa però tra le righe stampate in quel libro.

Mancava la forza drammatica e disarmante dell’esperienza diretta; quel vedere con i propri occhi, toccare con le proprie mani (e con i propri piedi, nel nostro caso) ogni centimetro di terra in cui la guerra si è combattuta per davvero. Essere in quei luoghi, con la consapevolezza di esserci per un determinato motivo, con la conoscenza precisa degli avvenimenti storici, trasforma lo studio teorico e scolastico in un profondo e concreto atto partecipativo e politico. Scegliere di ripercorrere la Linea Gotica è stata per noi una scelta politica; decidere di non dimenticare è per noi una scelta politica.

Andiamo con ordine. In quel libro di storia spaginato durante gli anni del liceo, della locuzione Linea Gotica o non v’era menzione, o al massimo serviva da titolo a brevi paragrafi, che in poche righe avevano la pretesa di raccontare avvenimenti tanto tragici, quanto importanti, del nostro recente passato.

Dal litorale di Massa-Carrara al litorale di Pesaro, dal Tirreno all’Adriatico si deve immaginare una lunga linea difensiva che sfruttava al massimo la conformazione del territorio montuoso dell’Italia centrale. Quella fu la linea difensiva tedesca voluta da Hitler per tentare di fermare l’avanzata degli Alleati. Lungo quella linea, scavata per lo più coattamente dagli italiani, fu versato il sangue di migliaia di militari, partigiani e civili.

Bunker e trincee si lasciano oggi crescere addosso edere e rovi; le pietre scivolano via mosse dalle piogge decennali; il tempo modifica ciò che prima fu modificato dall’uomo e a poco a poco appiana i dislivelli, riempie le buche, ammorbidisce il filo spinato. Eppure fili spinati, bunker e trincee si aggirano ancora come fantasmi nel nostro Appennino e se ci si ferma ad osservarli, se ci si trova nel silenzio del bosco a tu per tu, ancora vi si può vedere impresso il terrore di moribondi giovani occhi, ancora si possono ascoltare le preghiere sussurrate di chi conosce il proprio destino.

Durante gli anni del liceo si studia quanti furono i morti in battaglia e a quale esercito appartenessero. Durante l’esperienza di cammino lungo la Linea Gotica, di quei morti in battaglia si conosce il nome, si scopre la vita e difficilmente se ne accetta la morte.

É stato indispensabile per il nostro cammino che i nostri passi fossero guidati. E la nostra guida ci ha, sì, indicato sentieri da imboccare, chilometri da percorrere, incroci da superare; ma di gran lunga più importante per il nostro ritorno, ha proiettato tra quelle montagne e in quelle valli terribili scene di uno straziante film in bianco e nero. La nostra guida ha mosso le truppe alleate davanti ai nostri occhi, ha fatto marciare al crepuscolo la fanteria, ha lasciato parlare coloro che, se solo ancora potessero, avrebbero molto e molto da dire (e da insegnare) a chi con leggerezza sproloquia, reinventando fantasiose e variopinte versioni di una storia che invece andrebbe mandata a memoria in ogni suo terribile dettaglio. La nostra guida ci ha preso a schiaffi e nell’incanto di così sublime natura ci ha narrato l’atrocità della guerra. La nostra guida è stata la stampa dei PDF di approfondimento del sito www.camminolineagotica.it: fogli che ben presto sono diventati spiegazzati, accartocciati, umidi per il sudore delle mani. Ma ad ogni borgo, a ogni targa commemorativa, a ogni cippo, con poche righe, ma con precisione storica e geografica, ha dato voce al passato. La nostra guida non è solo frutto di un lungo lavoro di ricerca, ma è dimostrazione di amore per le idee di libertà e democrazia, è memoria storica preziosa; strumento indispensabile di ritorno.

Camminare

Quando si decide di intraprendere un viaggio a piedi, un cammino, non si decide semplicemente di camminare. Camminare è il gesto meccanico che ci permette di procedere lungo una strada, un sentiero, una mulattiera, quel che sia. Quel gesto meccanico lo possiamo riprodurre dentro casa, rimbalzando come una palla matta tra cucina, salotto, bagno, cucina, salotto, bagno e magari a fine giornata siamo anche stati capaci di percorrere svariati chilometri. Camminare – camminare e basta – lo possiamo fare nel corridoio dell’ufficio perché troppo stanchi di star seduti davanti al computer; lo possiamo fare per il breve tratto di strada che divide casa nostra dall’alimentari, dal bar, dai giardini pubblici. Fare un viaggio a piedi, un cammino, non è camminare per risparmiare i soldi del treno, del bus o del carburante.

Un cammino è vivere intensamente il tipo di strada che si percorrere, dall’asfalto cocente, al fango pesante; un cammino è fondersi con il paesaggio che si attraversa, sia esso urbano o naturale. In cammino si diventa montagne, si diventa alberi, si diventa muretti a secco ricoperti di muschio.

In cammino si apprende. Si apprendono la storia dei borghi, le culture, le tradizioni antiche; si apprendono le leggi della natura, si ritorna ad apprendere ciò che nella quotidianità della vita moderna occidentale non è poi così fondamentale, cioè come orientarsi in un bosco, quali piante e frutti sono commestibili, quali segni, quali tracce, quali impronte sottovalutare e quali no. Si apprende che, spogliati della nostra tecnologia, siamo piccoli e indifesi e terribilmente prede, non cacciatori, in balia di situazioni in grado di generare in noi una paura ancestrale del buio, dei suoi rumori, de sui versi, dei suoi canti notturni. In cammino si apprende però che le risorse a nostra disposizione sono molte più di quelle di cui eravamo aconoscenza. La salita che immobilizza le gambe e abbatte l’umore il primo giorno di cammino, si trasformerà in una piacevole sfida a distanza di pochi giorni. La salita, come tutte le altre difficoltà, non cambierà; a cambiare saremo stati noi, inconsapevolmente. Camminare, che lo si faccia in maniera avventurosa, come pellegrinaggio, come fuga dal mondo, in solitaria tra città e città o nel fitto di foreste deumanizzate, è sempre un profondo viaggio interiore alla scoperta dei nostri limiti e delle nostre capacità di superarli.

Noi, Gabriele e Giulia, abbiamo deciso di camminare, di camminare per ore, decine di ore; di camminare per chilometri, centinaia di chilometri. Abbiamo camminato con i piedi lungo sentieri più o meno tracciati; abbiamo camminato con il cuore all’interno della complessa esperienza umana, come singoli individui e come coppia che condivide un percorso di vita; abbiamo camminato con la mente per ricordare sempre, costantemente, il dolore di cui ogni centimetro di questo cammino è impregnato.

Il nostro viaggio

Abbiamo percorso integralmente il Cammino della Linea Gotica dal 2 al 19 agosto 2020.

Giulia era alla sua prima esperienza di cammino; Gabriele no. Giulia aveva paura di non avere la forza di portare il suo zaino fino alla fine; temeva che 500 km fossero troppi per i suoi piedi e che le continue salite e discese avrebbero affaticato all’inverosimile le sue ginocchia. Gabriele aveva le stesse paure, ma non lo diceva.

Alla fine Giulia e Gabriele – noi – hanno sofferto e non poco, ma hanno amato profondamente ogni passo percorso. Non ci siamo divertiti; ci si diverte a cena con gli amici o al luna park.

Ci siamo innamorati delle capacità del nostro corpo di reagire davanti alle difficoltà; ci siamo innamorati dei ciuffetti di erba tra i sassi che rendevano più morbidi i passi; ci siamo innamorati delle salite perché poi aspettavamo le discese, ma poi nelle discese, di quelle lunghe che non finiscono mai, aspettavamo le pianure che poi quando arrivavano sembravano praterie sterminate bruciate dal sole, e allora di nuovo si aveva voglia di salita; ci siamo innamorati delle ombre ballerine che danno conforto a mezzogiorno; ci siamo innamorati del verde, che a pochi metri è verde davvero, che a poche decine di metri è ancora verde, ma un po’ di meno, che a cento metri sulle colline è leggermente verde, che più in là sulle montagne sembra grigio o blu, che ancora più in là si fonde con il cielo e magari con l’universo stesso, ma in fondo, sempre verde è.

Il nostro viaggio è stato silenzioso e concentrato. A volte però scattava quella voglia irrefrenabile di urlare, in cima a un qualche poggio, dopo aver controllato che non ci fosse nessuno ad ascoltare quello sfogo che non proveniva dalla gola, ma da più in profondità, a metà strada tra le corde vocali e il basso ventre. Altre volte si cantava, Giulia, e si belava, Gabriele.

Lo si faceva in pianura in assenza di curve, quando la testa pareva ammattirsi perché non sapeva più cosa e come pensare. E allora si cantava. Si iniziava con Guccini, ma i suoi capolavori (ah, Maestro!) son difficili da cantare con il testo in mano, figuriamoci andando a memoria, con il dolore che pizzica ogni muscolo del corpo. Si continuava con Faber, ma troppa era poi la voglia di fermarsi e di sdraiarsi a osservare le nuvole con un bicchiere, meglio una bottiglia, di vino in mano. Puntualmente arrivava Celentano, e si ballava, ma ogni movimento era un azzardo con lo zaino pesante sulla schiena sudata e le ginocchia che parevano la frolla per crostate alla marmellata di more. Il pop italiano anni ’70 ’80 lo mugugnavamo un po’ tutto, con risultati pietosi, ma ad ascoltarci c’erano vacche, pecore, cinghiali e lupacchiotti; per ciò che ne so, nessuno dei suddetti è famoso per il canto, anche se del lupo il richiamo è tanto affascinante, quanto paralizzante, di notte sdraiati in una tenda nel fitto del bosco.

Si cantava per ridere di noi, perché una risata ricarica le energie perse e rende forti le gambe. Si urlava per buttare via i crampi e il tendine e la vescica e la cervicale e la schiena e i tagli, ecc. ecc.

Soprattutto si taceva, perché tacendo si pensa meglio, e pensando si comprende. Giulia voleva comprendere Giulia; Gabriele voleva comprendere Gabriele; reciprocamente si volevano comprendere; insieme volevano comprendere cosa fosse accaduto sotto i loro piedi, come fosse accaduto e perché fosse accaduto.

Scrivo in prima persona, a volte singolare, a volte plurale, poi in terza. Chi scrive adesso è fisicamente chi ha camminato, ma l’emozione ora è diversa da quella di chi camminava. Ora c’è il sapore dolce e nostalgico di quella caramella che si mangiava da bambini, che non era buona, ma lo diventava perché a comprarla e a regalarcela era la nonna. Mentre si camminava il sapore era amaro, salato per il sudore, per questo si taceva, tacevano Giulia e Gabriele, tacevamo noi. Stavamo zitti per collezionare ogni emozione e rielaborarla nella testa, per comprenderla.

Alle 6 di mattina, quando più o meno si iniziava a camminare, Francesca ci ha invitato a prendere un caffè, dopo una settimana dall’inizio del cammino. Chi fosse Francesca non lo sapevamo, fino a quel momento. Alle 6.01 sapevamo però che viveva a Pistoia, costretta a lasciare le amate montagne per famiglia e lavoro. Alle 6.02 sapevamo che in quelle amate montagne ci tornava d’estate e per nostra fortuna aveva del caffè da offrirci, visto che di bar e osterie aperte a quell’ora, neppure l’ombra. Alle 6.03, che appena abbiamo detto Linea Gotica i suoi occhi hanno smesso di guardare e hanno iniziato a ricordare. Francesca, mentre macchiava il caffè seduta con noi, che le eravamo sconosciuti, al tavolo della cucina si mise a correre. Corse come corrono le ragazze di dodici o tredici anni. Correva per non farsi vedere dai tedeschi che erano dappertutto; correva perché sapeva che altre ragazze, più grandi di lei, correvano da un bosco all’altro senza farsi vedere per portare pane, informazioni o munizioni nascoste sotto la gonna. Francesca in pochi secondi balzò dalla finestra della sua casetta estiva in pietra e con i suoi quasi 90 anni attraversò la Foresta dell’Acquerino e come il vento, senza poggiare piede a terra, arrivò a Pistoia e poi a Prato e poi a Firenze. “Francesca, lei è stata molto gentile con noi; avevamo tanto bisogno di questo caffè e di entrare nella sua cucina. E avevamo bisogno di vederla ricordare perché nei suoi occhi è scorso un film, una pellicola muta che abbiamo osservato da fuori, ma coinvolti nell’anima e nel cuore”. Avremmo potuto – e dovuto – dire queste parole, ma ci siamo congedati solo con un “Grazie, Francesca”. I chilometri che sempre più ci hanno separati da quella cucina poi, sono stati amari, malinconici.

Corrado ci ha offerto un letto per dormire, una doccia da usare, una cena da divorare, del vino per chiacchierare. Noi abbiamo accettato solo del vino; pentendoci per giorni e giorni, abbiamo rifiutato con garbo ogni sua gentilezza. Ci pareva di portar disturbo nella sua casa, di essere ospiti indesiderati ma bisognosi di aiuto.

A Corrado abbiamo chiesto di montare la tenda nel suo orticello. La rete che lo circondava ci faceva sentire al sicuro. In diciotto giorni di cammino abbiamo dormito in tenda per dodici giorni; quattro li abbiamo riposati in alberghi e affittacamere. Delle dodici notti in tenda, due le abbiamo passate in campeggio, le altre nel primo pezzetto pianeggiante che il cammino ci offriva.

Ovviamente in quei dieci giorni non ci sono state docce, solo l’acqua del fiume; ovviamente in quei dieci giorni non ci siamo mai cambiati; ovviamente in quei dieci giorni spesso abbiamo digiunato.

Ripensandoci ora, non sappiamo spiegarci perché abbiamo rifiutato l’ospitalità di Corrado. L’essere umano sa abbracciare un suo fratello, l’essere umano sa amare un suo fratello. Eppure per timore di disturbare, ci siamo accampati nell’orticello di Corrado per quella notte. Il vino però non lo abbiamo rifiutato e mentre il cielo inghiottiva le ultime luci del giorno,

Corrado settantenne, ci raccontava dei primi Anni Cinquanta, di lui bambino che della guerra, all’epoca, per fortuna non sapeva nulla. Corrado settantenne ascoltò poi la nostra di storia, di noi trentenni che la guerra, oggi, per fortuna non sappiamo cosa sia, ma che vogliamo capire.

E con un bicchiere di vino, sotto le stelle, circondati dalle sagome nere delle montagne, siamo rimasti in silenzio, gonfi di emozione.

Se di notte ti ritrovi in mezzo a un litigio tra cani da guardia ben addestrati ed un branco di lupi; se ti risvegli con la terra che ti trema sotto la schiena per la corsa pesante di decine di cinghiali; se ti auguri che ci sia luna piena per poter leggere due pagine del libretto che hai nello zaino; se per cena ti sei fatto bastare un pugno di more e per colazione due mandorle sono più che sufficienti, allora vuol dire che ti sei fatto un dono meraviglioso. Ti sei donato la possibilità di viverlo da essere umano, senza alcuna contaminazione esterna: il nostro viaggio è stato in totale assenza di notifiche. Nessuna chat, nessuna chiamata, nessun messaggio, nessuna mail, nessuno obbligo sociale di essere parte di quel calderone che è la modernità, o che peggio ancora, pretende di essere la definizione di civiltà.

Abbiamo camminato tanto. Prima di ogni passo ce n’è sempre stato un altro e dopo di esso, sempre un altro ancora. Far camminare i piedi è stato come far pompare il cuore, tenere vivo il meccanismo; non lo decidi tu; così è e così deve andare. Camminando non sai dove ti ritroverai, ma sta pur certo che ti ci ritroverai. E ci siamo ritrovati davanti la casa di due tizi in un borgo di otto case, quattro delle quali disabitate persino d’estate. Una era bruttissima, le altre no. I due tizi li abbiamo visti dopo un po’ che eravamo seduti davanti la loro casa; anzi, li abbiamo costretti a uscire perché abbiamo iniziato a chiamarli a lungo. Ci eravamo persi; non persi completamente e disperati, ma persi come quelli che forse sono sulla strada giusta, forse no, ma non hanno gli strumenti, la forza e la voglia di capire in che direzione stanno andando. Ci eravamo persi un po’, insomma. Gabriele aveva sentito dei rumori provenire dalla casetta e prima di pensare a quale domanda porre a coloro che avessero in caso risposto alla sua chiamata, iniziò a sbraitare. La risposta arrivò al terzo o quarto oh, c’è nessuno? Yes! Ah, ok. Bastava impostare il cervello sulla modalità della lingua straniera desiderata e poi comunicare; tutto facile. Ma poi il cervello è diventato protagonista. Mentre Gabriele spiccicava qualche parola in inglese per chiedere informazioni, il suo cervello portava avanti un discorso tutto suo, discorso ad cazzum, come lui lo ha definito, tra sé e sé, rendendo non semplice la conversazione. La pronuncia di quello Yes aveva infatti suggerito a Gabriele che i due non fossero inglesi, ma quasi sicuramente tedeschi. E il cervello obbligò Gabriele a chiederlo; Yes! di nuovo Sì! fu la risposta. Gabriele chiedeva ai due tizi se sapevano in che direzione fosse un certo monte e quanti chilometri dovessero ancora percorrere per arrivare alla meta giornaliera. Lo chiedeva a parole; in realtà però il cervello di Gabriele stava discorrendo riguardo a tutt’altro.

Eccoci qui, settanta e passa anni dopo il grande orrore, io italiano che ripercorro gli avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale e voi, anziana coppia di tedeschi, che in questa bella casetta costruita proprio lungo la Linea Gotica, venite a trascorrere le lente e sonnecchianti giornate estive. Cosa penserebbe quel partigiano che qui ha perso la vita? comprenderebbe il mio scherzare e chiedere informazioni a questa incolpevole coppia? Cosa penserebbe il soldatino tedesco costretto ad imbracciare un fucile in terra straniera? vedrebbe meno vano il suo sacrificio? Cosa sbraiterebbe invece il comandante dell’esercito della morte con il petto trapunto di stelle? si rivolterebbe nella tomba nel vedere i nemici diventare amici?

Cervello, cervello, è una riflessione ad cazzum e lo sai bene, concentrati sulla conversazione. E poi le risposte le conosci da te, cervello di Gabriele. Il partigiano che qui ha perso la vita non voleva cacciare lo straniero, ma difendersi dall’oppressore. Il soldatino tedesco, quello che tu speri sia venuto d’oltralpe contro la sua volontà, desiderava tanto quanto lo desideri tu che questa maledetta guerra non fosse mai iniziata.

Cosa avrebbe pensato il comandante dell’esercito della morte? continua a chiedere il cervello. Non lo so, cervello; ma so che se questo atto di pace, questo momento di gentilezza, questo scambiarsi parole premurose, possa in qualche modo testimoniare che una via d’uscita dal male esiste, allora – caro cervello – che Gabriele continui pure a chiacchierare a lungo con questa coppia di anziani tedeschi. Ti dirò di più, cervello di Gabriele, m’auguro che dopo le chiacchiere, si scambino sorrisi e da quei sorrisi, ricostruiscano il mondo.

Pensieri Camminanti

Alla fine Giulia e Gabriele – noi – hanno sofferto e non poco, ma hanno amato profondamente ogni passo percorso. Non ci siamo divertiti; ci si diverte a cena con gli amici o al luna park.

Ci siamo innamorati delle capacità del nostro corpo di reagire davanti alle difficoltà; ci siamo innamorati dei ciuffetti di erba tra i sassi che rendevano più morbidi i passi; ci siamo innamorati delle salite perché poi aspettavamo le discese, ma poi nelle discese, di quelle lunghe che non finiscono mai, aspettavamo le pianure che poi quando arrivavano sembravano praterie sterminate bruciate dal sole, e allora di nuovo si aveva voglia di salita; ci siamo innamorati delle ombre ballerine che danno conforto a mezzogiorno; ci siamo innamorati del verde, che a pochi metri è verde davvero, che a poche decine di metri è ancora verde, ma un po’ di meno, che a cento metri sulle colline è leggermente verde, che più in là sulle montagne sembra grigio o blu, che ancora più in là si fonde con il cielo e magari con l’universo stesso, ma in fondo, sempre verde è.

Quando il vento si insinua nel bosco tra le fronde
e bacia
i lisci fusti degli alti faggi
non posso che
aprire le braccia e
chiudere gli occhi e
fingermi uccello in volo.
E volo. Volo per davvero.
Volo sui pendii aspri e sulle più dolci colline; volo;
volo volteggiando veloce e in picchiata e in rapida salita m’affido al vento e volo.
Volo tra i vostri ultimi sospiri,
tanto deboli nell’attimo finale di tenervi vivi in vita,
tanto potenti
ora
che paiono poter spazzare via ogni montagna da qui a dove lo sguardo arriva. Il vostro nome canto
nel mio volo sui quei vostri
ultimi sospiri che sono divenuti oggi
vento.

Mi pare cosa assurda che tra così tanta bellezza
si volse lo sguardo all’orrore più oscuro.

Ti sarai pur chiesto prima di ammazzare o di essere ammazzato, poco conta la forma del dolore,
se un motivo vero
dietro quell’ordine impartito
sia mai esistito.
Le radici degli alberi non lasciano fuggire da questa terra neppure un briciolo di storia
e in quella storia tu resterai
dannato ad eterna memoria.

Quanti civili morti innocenti.
Chi non apparteneva ad un esercito, chi non era soldato, chi non imbracciava le armi, chi semplicemente era un vecchio, chi ancora era solo un bambino, chi era madre e proteggeva
ogni sua figlia, ogni suo figlio, era un civile.
Quanti civili morti innocenti.
Dall’altra parte, dietro ad un elmetto e un fucile, stivali e pistola, io non vedo un militare, ma solo l’incivile, il nemico della civiltà.

Fingo che tu sia l’alto fusto
e che con le forti tue gambe tu trattenga non la terra ma il tempo mai trascorso
e che con le ampissime tue fronde tu non protegga il giovane dal caldo ma dal dimenticare. In questa foresta che si disperde in ogni direzione
io ti vedo.

Jesi, 9 settembre 2020